di Alice Scalfi
Buon 2015 con l’elegia romantico emozionale del piatto classico del Capodanno. L’evolutiva sensazionalità degli accostamenti che sfociano nell’eccellenza storicamente beneaugurante delle lenticchie a mimo e similitudine di dobloni. Così si determina l’annullamento spazio temporale, fra ansie, timori e piaceri ricondotti all’appetitosa immanenza di tre gloriose, profumate, ineffabili fettine mollemente sdraiate su un giaciglio di polenta
Nulla è più romantico di un piatto di cotechino. Comunque lo si disponga, in quei 25 centimetri tondi di ceramica trovano casa ordine e disordine, impeto e tempesta, calma infine. Spossatezza, quasi, una volta che il piatto è stato ripulito. Emozione e stravolgimento dell’anima spazzano via ogni remora, mettono a tacere la voce della ragione e tendono all’assoluto, al raggiungimento dell’estasi che lì rimane, nei palati e negli stomaci, in una forma che magari tanto estatica non è, nel corso della notte assetata.
Nulla è più romantico di un piatto di cotechino. In quelle due, tre, quattro fette circolari e alte un dito c’è tutto il significato di quell’attimo e di tutto ciò che è venuto prima: le lunghe ore a sobbollire con calma, intere mattinate, o pomeriggi, che finiscono a fettine, prima, e in bocconcini, poi. La forchettata è calda e grassa sul palato. Il gusto sapido e deciso. Nulla è incerto in un boccone di cotechino. Tutto è lì, assoluto e titanico. Sublime, nel senso del termine che ci giunge da quel caro movimento culturale che è il Romanticismo del XVIII secolo: quel senso di terrore e impotenza che nasce di fronte a qualcosa di immensamente grande, incomprensibile all’uomo, che però non genera terrore, non spaventa, non deprime. Al contrario si traduce in piacere perché ciò che è incontrollabile, diventa bello.
Nulla è più romantico di un piatto di cotechino perché il cotechino ha una potenza incontrollabile. Nel gusto e negli effetti devastanti che può avere. Devastazione buona, perché quel sapore lo si pregusta per giorni, prima di avventarcisi, e la soddisfazione che poi si prova non ha eguali, e devastazione tra le più cattive, in cucina, sul sonno e sulla digestione. Va placato, il cotechino. Ecco allora gli accostamenti più azzeccati, quelli che lo smorzano e al contempo lo esaltano. Purè di patate (oltre alle varianti più o meno moderne con fagioli, piselli, zucca, cavolo), spinaci (eccezionali con l’avanzo, se ce n’è, il giorno dopo in padella), e le compagne di fatto dell’insaccato principe di dicembre: le lenticchie. E qui si raggiunge l’immagine sublime per eccellenza: piatto piano, candido, letto di lenticchie ben pareggiato con sopra, addormentate, tre fettine tanto grasse da sembrare sudaticce, quasi appiccicose; poi, a fianco, una dose appropriata di polentina della giusta consistenza, non troppo tenera. Terrore, ansia: impossibile conoscere quali saranno stavolta le conseguenze di questo pasto. E allora ci si rifugia in se stessi, nel sapore, sordi ad altri stimoli, in una dimensione che supera quella spazio-temporale e porta lì, dove solo esistono quelle tre fettine.
Nulla è più romantico di un piatto di cotechino. Buon cenone.